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Mi sento frastornata, le orecchie fischiano e la testa galleggia nel vuoto. Avverto la schiena schiacciata contro il suolo. Provo ad aprire gli occhi ma la luce mi acceca. Li copro d’istinto con un braccio e riesco a riflettere su una cosa sola: è nudo. Indossavo il giaccone fino a un minuto prima. Percorro il resto del corpo con le mani e non trovo traccia di abiti.

Sono completamente nuda! Il pensiero mi provoca l’ennesima martellata al cranio. Faccio forza sui gomiti e tento di alzarmi, poi, poco a poco, apro le palpebre. Nell’intenso chiarore inizio a identificare le fronde degli alberi, scendo più giù, alle mie ginocchia, ossute e bianche quasi quanto il cielo. Le stringo al petto e cerco di riordinare le idee. Tutto è confuso e distorto.

Un flash appare di colpo: un autobus. È talmente vicino che posso contare i denti dell’autista. Troppo tardi. Il ricordo successivo è di dolore, il dolore più forte che abbia mai provato.

Ora riesco a tenere gli occhi aperti. Sono seduta a terra su una coltre di muschio, in una foresta. Cerco di raccapezzarmi, sondo il terreno per capire se ci siano le mie cose, magari a distanza. Di borsa e cellulare non c’è traccia.

Arriverò tardi al lavoro. La riflessione scaturisce senza che la possa controllare. In realtà non capisco, non mi rendo conto di cosa sia successo. Se quell’autobus mi ha investita, dovrei trovarmi all’ospedale, piena di lividi o con qualche osso rotto. Sono illesa.

Penso di chiedere aiuto ma mi blocco: non posso farmi vedere da qualcuno nuda. Mi alzo a rilento e cerco nei dintorni qualcosa con cui coprirmi. Un arbusto basso, con foglie abbastanza larghe, sembra adatto allo scopo. Ne prendo alcune e cerco di legarle tra loro con un ramoscello a mo’ di ghirlanda; passo la creazione intorno al seno e la fisso. Procedo allo stesso modo per i fianchi, felice, almeno per una volta, di essere tanto magra.

Solo a quel punto mi permetto di urlare: «C’è qualcuno? Potete sentirmi?»

Il gracchiare di un uccello, a pochi passi di distanza, mi fa trasalire. Ripresa la calma, scaccio il magone che sta salendo in gola e inizio a muovermi. Decido di fasciare anche i piedi con del fogliame e infine procedo adagio sul terreno dissestato. Zone secche zeppe di rovi e rami bitorzoluti si alternano a tratti umidi e cedevoli. Un brivido mi sale lungo la schiena, e io mi faccio piccola. Ho paura. Non ho mai avuto tanta paura in vita mia. Grido ancora a volume sempre più alto. Gli unici segni di vita arrivano da qualche insetto che svolazza tra i cespugli. Non riesco nemmeno a vedere il sole: al di là delle fronde si distingue una coltre brillante di foschia bianca. È un cielo strano, inusuale.

Non so quanta strada abbia percorso, mi rendo conto soltanto del dolore a gambe e caviglie graffiate in più punti. Infine non resisto più, le lacrime sgorgano dagli occhi e i singhiozzi esplodono.

È il tocco su una spalla a farmi sobbalzare. Da rannicchiata mi ritrovo stesa sul suolo, con le braccia serrate al seno. Gli occhi sono sbarrati verso la figura in controluce; le labbra tremano, incapaci di formulare una frase.

«Ti ho sentita piangere. Chi sei? Dove siamo?» È una donna di circa quarant’anni, nuda come me. Anche lei tenta di coprirsi il corpo, imbarazzata.

«Io… io sono qui da poco, un’ora o due, forse. Ho p… perso la cognizione del tempo e non trovo più le mie cose», balbetto.

«Sì!», esclama lei, animata da un’improvvisa speranza. «Come me! Mi sono svegliata poco più in là e devono essere passate delle ore. L’ultimo ricordo è della sala operatoria, il medico mi diceva di contare da dieci a uno. Sono arrivata al cinque e mi sono svegliata qui. Forse… è possibile che siamo morte?» Abbassa la testa e si sfiora il ventre. «Ho un tumore, dovevano provare a toglierlo, eppure non c’è traccia dell’incisione. Non ho altre spiegazioni.»

«Morte?» Non posso essere morta. Ho una riunione importante questo pomeriggio e il capo ha promesso di candidarmi per il ruolo di responsabile. A venticinque anni è un grande traguardo. «Non è possibile. Io respiro e provo dolore», le faccio vedere i graffi alle gambe e mi rendo conto che sono quasi scomparsi. «Non è…»

«Anch’io sono caduta prima e mi sono tagliata su un sasso. La ferita è sparita nel giro di qualche minuto», fa notare.

«E allora? Dove siamo? Questa sarebbe la vita dopo la morte? Non ci credo!», sbotto.

La donna sistema con le dita i lunghi capelli scuri in modo da ricoprire, almeno in parte, i seni. Sono pieni e rotondi come la sua pancia.

La mia testa si inceppa, per un istante il suo corpo occupa tutta la mia visuale e non riesco a pensare ad altro: vado in blackout. Devo massaggiarmi a lungo il capo per ritrovare un barlume di lucidità. «Dobbiamo muoverci», le dico. «Non importa cosa sia successo, non possiamo restare in mezzo a un bosco di notte. Cerchiamo segni di vita o almeno un riparo. Sei d’accordo?»

Annuisce e indica la direzione. «Proviamo giù di lì, non ci sono ancora stata.»

Strada facendo mi copia: strappa delle foglie e cerca di comporre della biancheria improvvisata. Ci prova svariate volte ma le dita corte e tozze non le permettono di annodare con facilità gli steli sottili. Alla fine decido di aiutarla bloccando i rametti al suo posto.

«Che figuraccia sto facendo», mugugna all’apice dell’impaccio.

«Se non sbaglio mi hai trovata perché piangevo.» Invece del sorriso solare che avevo in mente esce una smorfia. Non ho alcuna voglia di essere cordiale né di aiutarla, eppure sono felice di avere compagnia in questo incubo. «Mi chiamo Meg», aggiungo.

«Meg… Megan?»

«Sì, ma ormai per tutti sono solo Meg.»

«Melinda. Sì, lo so, è un nome sciocco, mi chiedo sempre come sarà venuto in mente ai miei.»

Questa volta le labbra si piegano davvero all’insù. «Non è vero, ti dona.» Sono sincera benché non lo trovi un complimento. Il sorriso svanisce alla zaffata nauseabonda portata dal vento. Increspo la fronte e cerco di captare la provenienza. «Lo senti anche tu?»

«Bleah», fa lei. «È un odore terribile!»

Sa di latte avariato e petrolio insieme. Mi guardo attorno e tra la boscaglia ormai familiare non noto nulla. Tutto accade in un lampo: mi volto in direzione di Melinda e distinguo le fauci spalancate dietro la sua testa. Una bocca nera immensa. Urlo, urlo a squarciagola e al contempo scappo. L’ultima immagine è della povera donna azzannata da quella cosa. Non mi volto, fuggo e basta, corro a perdifiato fintanto che non ritengo di essere fuori dalla sua portata. Mi nascondo dietro un tronco e, trafelata, non posso fare a meno di cercare quell’essere. La sagoma, tanto lontana da apparire un punto indistinto, è china su Melinda e sembra la stia divorando.

Il senso di colpa e il disgusto si mescolano; un rigurgito doloroso mi sale in gola e mi piego in due colta da un conato, tuttavia non esce nulla.

«È un’anima corrotta. Non ho fatto in tempo, mi dispiace.»

Strillo ancora, appiattendomi contro l’albero. Davanti a me c’è un giovane uomo alto e dal fisico statuario. Ha capelli neri che gli ricoprono metà schiena, la pelle diafana e delle iridi strane, oblunghe, di un colore impressionante: fuori verdi e all’interno rosse.

«Chi diavolo sei?», squittisco.

«Non esattamente un diavolo, ma puoi chiamarmi Satana se ti fa piacere», e ghigna. «Andiamo via di qui prima che ci veda.» Con un gesto teatrale scosta il mantello che lo ricopre da spalle a piedi e mi porge una mano. Sotto intravedo il petto nudo.

Retrocedo. «Non osare toccarmi! Ho fatto mesi di arti marziali, ti avverto!» In realtà sono state solo tre lezioni e me ne sono andata al primo livido.

«Oh, che paura.» Un sorrisetto perfido fa capolino sul suo volto. «Se preferisci essere trangugiata anche tu, per poi rinascere con la stessa rivoltante sembianza, non mi opporrò. Peccato, avremmo potuto giocare un bel po’ insieme.»

Si volta e dalle scapole fuoriesce una nube di fumo nero che, nel giro di qualche istante, prende la forma di due immense ali. È un sogno. Deve essere un sogno!, pondero.

Mi stropiccio gli occhi nella speranza di aver avuto un abbaglio, ma quelle ali sono sempre lì, più tangibili a ogni secondo.

«Ultima possibilità», dice. «Vuoi andare incontro a un’eternità di solitudine e dolore o vivere di piacere?» Non c’è più traccia di scherno nel suo sguardo, è del tutto serio.

«Io… non capisco! Dove siamo? Cos’era quella cosa? E tu… tu hai delle ali! Siamo all’inferno? Sono davvero morta?», esplodo.

«Sono un bel po’ di domande alle quali rispondere prima che il corrotto arrivi da noi.» Indica un punto dietro di me e alza il mento.

Ho paura a voltarmi eppure lo faccio. Quella bestia, a metà tra un orso e un uomo, sta per raggiungerci. Si muove a quattro zampe con una velocità impressionante. Tra le fauci mi sembra di vedere brandelli di foglie, le stesse indossate da Melinda. Scuoto il capo inorridita. «Via… portami via!», lo imploro aggrappandomi al suo braccio.

Mi circonda la vita e si solleva con facilità, dopodiché la visuale si amplia. Il bosco si trasforma in una macchia verde, un’immensa ed estesa macchia verde: non ne saremmo mai uscite a piedi, era impossibile.

«Dove siamo davvero?», gli sussurro a un orecchio, reggendomi alle sue spalle larghe.

«Voi umani lo chiamate Paradiso o Inferno, in base all’esperienza che ne traete. In realtà questo è solo un approdo per le anime in transizione.»

«Sono davvero morta?»

«Lo sei, Megan, anzi, Meg, ti piace così, giusto? D’altronde, tutti muoiono prima o poi, questo però non implica che la vita finisca.»

«E tu… saresti il mio angelo custode

La fragorosa risata mi fa sussultare. «Preferirei se mi paragonassi a Caronte. La mitologia greca mi ha sempre affascinato. In ogni caso, il mio nome è Claus e sono stato scelto per elevarti.»

«Elevarmi

«Esatto. Sei ancora troppo ancorata alla tua esistenza terrena, devi elevare lo spirito. E poi… il mio padrone ti vuole tenere un po’ per sé. Solo qualche secolo, per dirla in gergo umano, non temere. Poi sarai libera di scegliere.»

Al verde iniziano a susseguirsi alte catene montuose, alcune del tutto rosse al centro, come vulcani pronti a esplodere. Oltre, una pianura a perdita di vista. «Non capisco.»

«Capirai una volta a palazzo. Ora dormi.» La sua voce è ipnotica, suadente, mi obbliga a chiudere le palpebre nonostante non voglia affatto dormire. «Brava, piccina. Mi piacciono le ragazze ubbidienti.»

 

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© 2019 Lorena Laurenti

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