Parte seconda/Anteprima libro

Lorena Laurenti

 

 

La realtà in cui viviamo è solo un minuscolo spiraglio dell’universo che possiamo vedere.

Siamo molto di più di ciò che i nostri occhi osservano.

Dedico questo libro a chi ha il coraggio di allargare il proprio “campo”.

Lì tutto è possibile.

 

 

La porta dondolò, sollevando una nuvola di fumo. Il nastro segnaletico della polizia, strappato in più punti, sventolò nell’aria, posandosi poco dopo a terra, con delicatezza. Sul pavimento c’erano ancora le macchie di sangue incrostato e questo lo fece sorridere. Sapeva che Sofia non era in grado di trasportarsi troppo lontano, ma mai avrebbe pensato che scegliesse Villa Maria, lo stesso luogo in cui era stato commesso l’ultimo crimine.

A Dargo quella scena parve lontanissima, come se appartenesse a secoli passati: Laura, l’ultima ragazza di cui si era servito, si trovava di fronte a lui, con gli occhi sgranati dallo stupore, senza comprendere ciò che le stesse accadendo. Gli ricordò Erica. Aveva un’espressione identica durante la loro recente chiacchierata, un misto di sorpresa e incredulità. La frase con cui si era rivolto a Laura, tempo prima, valeva per entrambe.

«Te l’ho già detto, le donne di questo secolo sono delle bambine sciocche, vedere il loro sangue è appagante.»

«Sei venuto per uccidermi?»

Dargo spostò lo sguardo dal pavimento al divano, fiocamente illuminato dalla luce del camino acceso. «Credevi non ti trovassi, Sofia?»

«Sapevo che mi avresti trovato.» La donna emerse dallo schienale, fece presa sul tessuto logoro e si mise seduta. Trattenne un lamento serrando i denti, ma non poté fare a meno di provocarlo. «Avanti, non restare sull’uscio. Sei venuto per finirmi. Fallo.»

L’uomo si mosse in silenzio, come un’ombra, per sedersi infine sulla poltrona adiacente al divano. «Questa vecchia casa è piena di ricordi, non trovi?» Posò il viso su una mano, ruotando il capo verso Sofia. «Hai un aspetto tremendo.»

«Capita quando un pugnale benedetto ti affonda nel torace», sibilò, contenendo un accesso di tosse.

«Che cosa ti fa credere che voglia ucciderti? Dopotutto hai eseguito i miei ordini, o almeno una parte di essi», replicò lui con aria compiaciuta.

«Dunque mi ucciderai per la parte che non ho eseguito?»

«No. Questo piccolo cambiamento di programma potrebbe tornarmi utile.»

«Perciò non hai più bisogno di me.»

«Per il momento è così, ma presto mi servirai ancora, non temere.» Si sporse verso di lei e le sfiorò il viso. La pelle di Sofia sembrava incandescente sotto quelle dita gelide. «Potrei guarirti se volessi. Il tuo blando incantesimo non compenserà il sangue perso.»

«A che prezzo?», domandò, scostando in malo modo la sua mano.

Negli occhi privi di espressione si accese un bagliore e le labbra si piegarono in un sorriso sprezzante. Dargo scattò in avanti, afferrò la maglia della donna, all’altezza del collo, e la tirò a sé, ignorando completamente i suoi lamenti.

«Il prezzo non è cambiato. Eri mia e continuerai a essere mia. Credevi che con il mio ritorno le cose sarebbero variate? Che se la maledizione si fosse sciolta ti avrei lasciato andare?» La strattonò tanto vicino che le loro fronti si sfiorarono. «Spero ti sia divertita con quel ragazzino, quel Figlio del Sole. Dimmi, com’era la sua energia? Ne vorresti ancora?»

Sofia raccolse le ultime forze in una preghiera silenziosa, poi scagliò un’onda rovente addosso all’uomo. Era conscia che ridotta in quello stato la sua magia non sarebbe stata efficace, ma il risultato fu addirittura penoso.

Dargo lasciò la presa, facendola ricadere sul divano, ed esplose in una risata. «Oh, Sofia, sei sempre stata una combattente, fino alla fine. Non è vero? Forse è questo il motivo per cui non voglio lasciarti andare.»

«Ora hai lei, sei legato a quella mocciosa. Non ti servo più, perciò uccidimi e facciamola finita.» Il tono della donna decrebbe a un gemito sommesso, divenendo simile al suo stato d’animo: d’un tratto sentiva quei lunghi secoli pesarle sulle spalle.

«Tu non sei lei. Non sarai mai lei.» Non c’era più disprezzo nella voce; le parole si fecero calde, uscirono lente e voluttuose. Dargo si chinò ancora davanti a Sofia, ma questa volta non per aggredirla. Posò la bocca sulla sua facendola trasalire.

«Tu non sei lei. Non sarai mai lei.»

Aveva già sentito una frase identica, e a pronunciarla non era stato Dargo, anche se gli occhi di quell’uomo erano simili ai suoi. Il suo padrone si stava per sposare e lei aveva sperimentato per la prima volta quel sentimento meschino, la gelosia. Lo voleva per sé, cosa del tutto inconcepibile per una serva.

Dargo fece scivolare la lingua attraverso le labbra della donna, e con essa penetrò un fiume di energia. La ferita si rimarginò all’istante, lasciando solo una macchia scura sugli abiti. Il senso di nausea scomparve così come le vertigini. Anche quei ricordi svanirono. Di colpo si sentì sola con lui, con l’uomo che un tempo credeva di aver amato. Il peso del corpo sul suo non equivaleva più a una fitta dolorosa, al contrario era diventato piacevole; le braccia, che si facevano strada sulla sua schiena, avvolgenti. L’energia cessò di affluire, eppure Dargo non si mosse; affondò una mano tra i suoi capelli e la strinse.

Sofia se ne rese conto pienamente solo allora: Dargo era davvero tornato. Il corpo che l’aveva posseduta centinaia di anni prima era nuovamente su di lei. Un surrogato, certo, nient’altro che una brutta copia del suo Signore, l’unico amore sincero che avesse mai provato. Doveva accontentarsi dell’essere più vicino a lui, a l’uomo che avrebbe protetto a costo della sua vita. Lo stesso per cui aveva nutrito gelosia. Sbatté le palpebre, rinvenendo di colpo da quello stato di torpore.

Dargo le lasciò il viso ma continuò a fissarla. Gli fu sufficiente quell’occhiata per capire. Con un gesto secco le strappò la camicia sul petto, poi scese più in basso, portò un ginocchio tra le sue cosce e nel contempo alzò la gonna. «Stavi pensando a lui. Vorresti che al mio posto ci fosse mio padre», ringhiò a denti stretti.

Sofia non rispose, non c’era nulla da aggiungere. Inarcò il bacino e, facendo perno sulle gambe, scaraventò l’uomo a terra, ma senza lasciargli le spalle. Si ritrovò esattamente sopra di lui, mentre una nuvola di polvere si era alzata circondandoli. «Hai detto che sono tua. Sei troppo coinvolto da quella ragazzina per prendermi?»

La rabbia sfumò in un sorriso. Le accarezzò le curve con lo sguardo: le cosce nude contro le sue, la gonna arricciata in vita e la pelle opalescente, vista attraverso il pizzo della biancheria. «Ho bisogno della sua energia, però, come hai detto tu, è solo una ragazzina.»

 

1

Niente telefono, niente computer. In pratica ero segregata in casa. Da quando Arjuna era stato gettato fuori dalla porta, poche ore prima, non avevo più avuto sue notizie. Mi sembrava di essere appesa dentro a una bolla che galleggiava nel nulla. Come se non bastasse, Dargo fingeva. Si comportava da adorabile collega con mia madre e da ospite impeccabile con mio padre. Facevo la parte della figlia ribelle in punizione a cui lui si rivolgeva con garbo. Mi chiedevo se avesse manipolato i miei genitori o se fosse stato semplice circuirli.

Avevo caldo e freddo insieme. Il piumone pesava come un macigno ma, se lo scostavo, l’aria ghiacciata mi faceva rabbrividire. Mi rivoltai nel letto per l’ennesima volta, scalciando per uscire dal groviglio di coperte in cui mi ero arrotolata. In preda all’ira, ne feci un’unica matassa e la scaraventai a terra. Non ne potevo più. Scattai in piedi e uscii in corridoio, stando attenta a non sbattere la porta. Ci sarebbe mancata solo un’imboscata notturna della Signora oscura per completare il quadretto, e io non volevo fare altro che sciacquarmi la faccia e bere.

Oltrepassata la soglia, mi fermai. Si udiva il rumore del frigo provenire dalla cucina e il tic-tac ritmico dall’orologio appeso in soggiorno. In sottofondo, dall’ultima stanza del corridoio, il fischio modulato e costante che produceva il naso di mio padre; continuavo a domandarmi come la mamma potesse dormirgli a fianco. Voltai dal lato opposto, in direzione del bagno, soffermandomi un istante vicino all’ingresso della camera di Dargo, ovvero il vecchio studio di Sandra. Non potevo credere che quell’essere fosse davvero lì, in casa mia, come un visitatore qualunque. Scrollai il capo e proseguii, quando un suono sospetto mi obbligò a girarmi. Assomigliava a una vibrazione, un crescendo che mi scuoteva facendomi gelare il sangue. Dimenticati il bagno e l’acqua fresca, mi bloccai davanti alla sua porta. Prima che potessi sfiorarla, si spalancò. Dargo mi fissò dall’alto al basso con dipinta addosso un’aria saccente. I ridicoli occhiali che indossava a cena erano spariti e i capelli ricadevano disordinatamente su giacca e camicia. Non feci in tempo ad aprire bocca. Vidi le sue labbra piegarsi in un sorriso altezzoso e l’attimo successivo sentii chiudersi il battente alle mie spalle. Mi aveva catapultata all’interno. Un movimento così veloce da percepirlo appena.

«Noto con piacere che hai iniziato ad avvertire la mia presenza.»

Lasciò andare il braccio che mi aveva afferrato e tentò di accarezzarmi il viso. Non glielo permisi. «Presenza? Che significa? Non eri in casa?»

«Povera piccola, hai talmente tante domande che ti ronzano in testa.» Portò le mani a pochi centimetri dalle sue orecchie e chiuse gli occhi. «Le sento e non sono piacevoli. Hanno un gusto acido.»

«Non chiamarmi piccola e non toccarmi! Che cosa pensi di ottenere stando qui? E che cos’hai fatto a…»

Mi schiacciò contro il muro, coprendomi la bocca con un palmo. Pronunciò alcune parole senza emettere suoni, socchiudendo le palpebre, infine mi lanciò un’occhiata eloquente. «Sarei davvero curioso di vedere come spiegheresti tutto ciò a tua madre. Vuoi forse che ti sorprenda nella mia camera?» Scostò la mano ma non si allontanò. Il suo petto premeva contro il mio e quel contatto, per quanto lo negassi, non mi lasciava indifferente. «Oltre a essere fuggita di casa adesso perseguiti anche i suoi colleghi di lavoro. Che ragazzaccia.»

Era troppo. Lo spinsi lontano e incrociai le braccia all’altezza del cuore, come se quello stupido gesto mi permettesse di dimenticare, di far spegnere il battito frastornante che mi saliva fino alla testa.

«Che cosa vuoi ancora da me, si può sapere? Perché mi fai questo?» Ero arrivata al limite della sopportazione e non sapevo per quanto avrei potuto trattenere le lacrime.

Dargo si diresse dall’altro lato della stanza e si tolse la giacca. Arrotolò le maniche della camicia un paio di volte e raccolse i capelli per portarli, subito dopo, dietro alla schiena. L’unica fonte di luce proveniva dalla lampada sul comodino, troppo blanda per cogliere i dettagli ma abbastanza luminosa per notare la macchia scura che copriva parte del tessuto. Sommandola all’odore metallico distinto in precedenza, intuii si trattasse di sangue.

«Ne avevamo già discusso. Ho ancora bisogno di te e, allo stesso tempo, sto cercando di darti una via d’uscita. Ricordi?» Nella sua voce non c’era più sarcasmo; pareva essersi quietato.

«Mi hai portato alla villa per potermi difendere. E adesso? Mi riconduci qui per quale scopo? Be’, ti do una notizia: non ho bisogno di essere difesa. Ma forse ti sei nascosto in casa mia perché sei tu ad averne bisogno.» Finalmente trovai la forza per scostarmi dal muro. Alzai un dito per indicare la chiazza sospetta e pretesi una spiegazione: «Che cos’è quello? A cena non indossavi questi vestiti.»

La riga che disegnava le sue labbra si allargò in un ghigno. «Non è mio questo sangue.»

Lì per lì rimasi basita. Mi ci volle una manciata di secondi per trovare la forza di rispondere: «E… e di chi allora? Non vorrai farmi credere che hai ferito qualcuno, spero.»

«Io non ferisco. Se lotto contro un nemico lo uccido, sempre», replicò soddisfatto.

«Come quelle due ragazze? Angela, la cameriera, e la donna che suonava l’arpa? Cos’è successo alla villa? Era tutta un’illusione?»

 

 

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© 2014 Lorena Laurenti

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