Parte prima/Anteprima libro

Lorena Laurenti

 

 

Dedicato a chi non ha paura

di varcare quella porta…

il sottile confine tra reale e irreale.

 

 

Per molti il nero è solo nero. L’assenza di colore, il buio. Non per me. Esistono infinite gradazioni di nero, inesauribili riflessi: nero d’avorio, nero di Marte, nero di carbonio, per poi passare ai bruni e ai grigi. Era stato questo a colpirmi in lui, i suoi occhi. Ripensandoci, mi sembrava quasi sciocco, un evento irreale. Premevo la matita sul foglio, delineando la forma del viso, la massa di capelli scuri, il naso dritto e le labbra leggermente dischiuse in un’espressione basita. Giunta allo sguardo, però, la matita si bloccava, le iridi non volevano prendere forma. Il nero di un drappo di seta lucida, l’iridescenza degli occhi di un gatto accecato da un’auto, il riflesso dell’acqua in un pozzo, di notte. Questo era il loro colore, e non riuscire a riprodurlo mi consumava l’anima.

Fissai interdetta il punto in cui l’avevo scorto: affiancato al salice piangente, nascosto tra le fronde dell’albero vicino alla riva. In assoluto il posto che amavo di più. Adoravo il modo in cui le alghe si muovevano sotto il velo d’acqua, l’azzurro che si mescolava al verde, e le piccole terrazze ricolme di fiori, sospese a pochi centimetri dal canale. Le rare macchine che percorrevano ponte San Francesco non disturbavano la quiete; le pale del mulino poco distante erano l’unico rumore sul quale mi piaceva concentrarmi. Un insieme di suoni e colori unico.

Quella figura stonava ma, al contempo, era affascinante: una macchia scura tra le pennellate accese del paesaggio. Nei pochi secondi in cui l’avevo osservato, il suo sguardo aveva incrociato il mio e mi era penetrato dentro. Non mi era mai accaduta una cosa simile, nemmeno con Mattia; mi piaceva, certo, ma il giovane uomo che avevo notato soltanto due giorni prima era un’altra cosa. Se non mi fossi distratta, se proprio in quel momento un clacson non avesse suonato, forse l’avrei visto meglio e sarei riuscita a completare il disegno. Invece si era volatilizzato nel nulla. Non c’era traccia di lui né nei vicoli laterali né sulla via principale. Era semplicemente scomparso.

Inspirai a fondo e tornai a fissare la riva del Cagnan, solo un altro minuto prima di rientrare a casa. A quell’ora del pomeriggio, la luce si rifrangeva sull’acqua creando riflessi ambrati. I rami del salice sfioravano la superficie come il velo riverso di una sposa, mentre le foglie ondeggiavano piano, sospinte da una brezza leggera.

La sua ombra era in qualche modo rimasta impressa nel paesaggio, quasi avesse lasciato lì una parte di aura.

Aura, pensai, stavo iniziando a ragionare con gli stessi termini che usava sempre Arjuna. A forza di frequentare l’associazione, mi ritroverò a meditare sotto una cascata in qualche villaggio sperduto! Sorrisi stupidamente a quella considerazione e sfogliai il blocco degli schizzi: disegni abbozzati di paesaggi e persone. Erano stati fatti in tutti i punti salienti della città, alcuni come compito scolastico, altri per puro piacere. Spesso, tornando da scuola, mi fermavo su quella panchina e, altrettanto spesso, mi rendevo conto che erano passate ore solo dal colore dell’acqua, dagli spostamenti delle papere lungo il canale.

Da quel posto adoravo osservare la casa di fronte, la doppia finestra sostenuta da due colonne verticali, al primo piano. Il bianco luminoso spiccava sulla costruzione restaurata da poco, in netto contrasto con il verde acceso dell’edera che, dal balcone principale, ricadeva abbellendo l’intera facciata. Lasciavo vagare la fantasia e mi trovavo a pensare ai proprietari, immaginavo la loro vita dentro quell’angolo suggestivo di Treviso. Doveva essere bello svegliarsi ogni mattina con un paesaggio simile sotto casa. Un lusso che probabilmente io non avrei mai potuto permettermi perché, come diceva sempre Arjuna, gli artisti muoiono tutti di fame e, visto il suo stile di vita, non potevo dargli alcun torto.

Lo sguardo s’infilò sotto il ponte, in uno degli archi stretti nei quali passava il canale. Due paperelle s’inseguivano spruzzando acqua e dimenando la coda; mi mise di buon umore osservarle. Chiusi di scatto il quaderno e lo stipai nella cartella di plastica ma, prima di andarmene, fissai per l’ultima volta il tronco. Un brivido mi fece accapponare la pelle. L’autunno si preannunciava molto freddo, freddo quanto il presentimento che guizzava nella mia testa.

 

1

Conoscevo quello sguardo e non si prospettava nulla di buono. Avevano da poco cambiato le norme locali sull’impatto ambientale per quanto concerneva la costruzione edile e, nonostante non fossi particolarmente ferrata in materia, mi era chiara una cosa: il progetto di mia madre era bloccato in un punto morto e queste variazioni la stressavano. Tutto ciò significava trovarsi a contatto con la sua peggior versione; l’ecologista incallita si era impossessata del suo corpo come un demone delle tenebre. Io e papà per queste occasioni avevamo un codice di allerta, le affibbiavamo i nomi degli Jedi oscuri di Star Wars. Durante l’intera settimana era peggiorata al punto di meritarsi il titolo di Palpatine. Lei, ovviamente, ignorava la nostra presa in giro, “sprechi di risorse mondiali come i film Hollywoodiani” non la sfioravano; detestava la televisione e l’unica forma di tecnologia che apprezzava era il web, ovvero un “ottimo mezzo per risparmiare carta”. In queste occasioni, essere una figlia appassionata d’arte non giocava a mio favore.

Mentre entravo in casa e svuotavo il contenuto della cartellona da disegno, mi fissò con l’espressione truce e indignata di chi guarda un assassino di pargoli innocenti.

«Non dirlo, mamma», la interruppi prima che aprisse bocca.

«Oh, Erica! Non capisco perché non li usiate riciclati, sul serio, dovrò parlarne con i tuoi professori.» Alzò gli occhi al cielo in quella sua tipica espressione che stava a significare “di questo passo tutti gli alberi del mondo spariranno”, e tornò a concentrarsi sul suo e-book reader.

«Perché non esistono riciclati», obiettai esasperata, «non si può fare un disegno tecnico su una carta rugosa e scura!»

L’avevo fatto, senza rendermene conto avevo risposto alla sua provocazione. Forse era stata colpa dei compiti improvvisi che ci avevano affibbiato per descrittiva, una delle materie che odiavo di più o, forse, ero semplicemente nervosa per colpa di quel disegno che non riuscivo a finire, di quegli occhi scomparsi dai miei ricordi.

La mamma calò gli occhiali sulla punta del naso, il suo segnale di guerra, e posò il dispositivo a lato della poltrona, pronta a indottrinarmi con tutte le nuove scoperte ecologiche a livello mondiale; fu la porta a salvarmi.

«Darth Vader!», urlai implorante verso mio padre, prima ancora che varcasse la soglia.

«Si può sapere che cosa significa?», sbottò lei, incrociando le braccia al petto. La mossa successiva sarebbe stata camminare avanti e indietro lungo l’atrio, parlando a vanvera fino a quando entrambi non fossimo crollati. A volte l’apprezzavo davvero, l’impatto ambientale era importante anche per me, ma lei esagerava.

«Anna, tesoro, com’è andata la giornata?» Papà intervenne appena in tempo e, come se avesse previsto il verificarsi di una situazione simile, porse alla mamma una piantina di basilico adornata da un fiocco rosso. I fiori recisi nel loro rapporto erano esclusi. Una volta, da fidanzati, lui le aveva portato delle rose e lei per poco non l’aveva preso a borsate.

Vidi mamma sciogliersi un po’, rinfilare correttamente gli occhiali e annusare il profumo della piantina aromatica.

«Da coltivazione biologica», aggiunse lui con un sorriso smagliante. Posò l’impermeabile sull’attaccapanni e mi fece l’occhiolino. Io mimai con le labbra la parola grazie, poi raccolsi tutti i fogli sparsi e li feci sparire prima di irritare ancora il demone che viveva in lei.

La scrivania che avevo in camera era troppo piccola per la dimensione di quei disegni o, meglio, non avevo voglia di spostare le cataste di quaderni che la riempivano. Avevo rimandato per giorni e adesso non c’era più tempo.

«Stai per uscire?», chiese mamma. «Sei appena tornata.»

«Lo so, ma non riuscirò mai a finire da sola, andrò a implorare Arjuna.» Recuperai una matita e vi attorcigliai i capelli intorno fino a quando non si fissarono sul capo. «Stasera lavora, ma sono certa che non mi abbandonerà.»

«Non pensi di essere un po’ troppo esigente con quel povero ragazzo?» Quando voleva irritarmi, mia madre ci riusciva perfettamente, tuttavia, se volevo sopravvivere a quella serata, avrei dovuto tacere.

«Troverò il modo di sdebitarmi», dissi a denti stretti.

«Basta che non ti sdebiti in quel modo.»

«Mamma! Siamo solo amici, lo sai benissimo!»

«Oh, signorina, non far finta di niente, so bene come si è amici da giovani, lo sono stata anch’io, anche se non ti sembra.»

Certo, due secoli fa. Trattenni il commento acido e finsi di non aver sentito.

«Sono certo che Arjuna ti aiuterà volentieri, perché non gli porti una fetta della torta che ha fatto la mamma? Dovrebbe essercene ancora in cucina.» Mio padre mi scompigliò i capelli come sempre, poi, con un gesto del tutto naturale, afferrò mia madre sottobraccio e la trascinò via.

Crollai sul divano, un vecchio manufatto etnico che arrivava dall’India o giù di lì. Non avrei mai creduto che avere diciassette anni potesse essere così difficile. Solo un anno prima tutto sembrava idilliaco: la scuola che desideravo, le passioni che finalmente trovavano sbocco, il futuro radioso. E poi Mattia, anzi, Mathias, come gli piaceva farsi chiamare.

Sospirai debolmente, ricordando la prima volta che lo vidi. Arjuna mi aveva portato a visitare il suo appartamento da universitario: un buco di cinquanta metri quadri nel quale, grazie a Santa Ikea, erano riusciti a far stare due camere, bagno, cucinotto e soggiorno. Ma in mezzo a moderni mobili scadenti e vecchi ruderi appartenuti a qualche prozia del proprietario, c’era lui. Alto, moro, con la barba incolta e gli occhi più verdi che avessi mai visto. Un essere della notte, un musicista. Non ero riuscita a dirgli una parola, e Arjuna mi aveva trascinato via in malo modo. Da quel momento ogni scusa era buona per andare a trovarlo.

Ma adesso qualcosa era cambiato. Più crescevo, più avevo voglia di fermarmi, perdermi nelle sfumature dei paesaggi immutabili che guardavo ogni giorno.

L’uomo che avevo scorto sotto il salice mi tornò ancora in mente e il pensiero mi fece rabbrividire. Avrei voluto incontrarlo, parlargli. No. Non era vero. Mi sarebbe bastato anche soltanto sfiorarlo, osservare un’altra volta quello sguardo sfuggente.

 

Treviso – Lungosile Mattei

La donna si accostò alla balaustra e posò le mani sul pomolo in pietra ricostruita. Non riusciva più a ricordare come fosse a quell’epoca. Non ricordava quasi nulla, l’aveva rimosso. Sfilò uno dei leggeri guanti di pelle e strinse le dita sul montante orizzontale in ferro; l’odore metallico le penetrò nelle narici e con esso tornò alla gola il gusto del sangue. Scosse la testa e alzò il bavero del soprabito. Il sole non era ancora tramontato del tutto, i suoi riflessi coloravano la superficie dell’acqua che, a poco a poco, da arancio si faceva nera.

«Mi ha visto, ma immagino tu lo sappia già.»

Percepiva la sua presenza, lo sentiva ancora prima che le apparisse a fianco, eppure ogni volta aveva un timido sussulto, un leggero tremore che la scuoteva dentro, che la faceva ripensare al passato.

«Mia dolce, piccola…»

«Non dirlo», lo seccò la donna, poi si guardò lentamente attorno. La strada era deserta, ma non se ne stupiva. Lui aveva la capacità di creare il nulla attorno a sé.

«Non vuoi che pronunci il tuo nome?»

«Non vuoi farti vedere?», replicò lei. Rinfilò velocemente il guanto e spinse una ciocca di capelli dietro le orecchie, dopo premette il berretto sulla testa. Con molta calma estrasse dalla borsetta specchietto e lucidalabbra; si fissò torva e ritoccò il trucco. Non dimostrava nemmeno trent’anni e questo, anche se inizialmente le piaceva, adesso iniziava a pesarle.

«Cosa ti affligge esattamente? La gente che hai ammazzato o quello che hai fatto a me?»

Un brivido gelido le accarezzò la nuca, come se un dito la sfiorasse, soltanto che vicino a lei non c’era nessuno. Chiuse e riaprì gli occhi, iridi cupe prive di luce, respirò adagio e si costrinse a sorridere.

«Ora puoi leggermi addirittura nel pensiero? L’ultima a quanto pare non è stata inutile.»

«Devo ammettere che recentemente sei migliorata, mia cara. Prima Laura, ora questa. Sento che sarà la volta giusta.»

«Non in questo modo, non intendo più coprire le tue tracce!» Il sorriso divenne un ghigno di rabbia contenuto a stento.

«Ti potrebbero sentire, non vorrai finire ancora in quel posto, vero? Ah certo, ormai i manicomi non esistono più, ora che cosa c’è? Devi iniziare ad aggiornarmi, non credi?»

La donna ritrovò la calma e, come se niente fosse, riprese a passeggiare. «Dovevi proprio ucciderla, l’ultima?»

«In realtà si è salvata. Il ragazzo ha chiamato i soccorsi appena in tempo, una vera delusione. Non sono riuscito a rimanere in lui abbastanza a lungo da guardarla spegnersi.»

«E io ho dovuto coprire i danni come sempre. Hai una vaga idea di come mi senta?»

«Di come tu ti senta?» La voce impercettibile che le suonava nelle orecchie divenne un urlo terrificante; una raffica di vento le fece alzare la gonna e il cappello le volò via dalla testa, lasciando liberi i ricci neri. Stava diventando tangibile. Dopo secoli il suo potere aveva ricominciato a manifestarsi materialmente. Sentì il sangue gelarsi nelle vene. «Tu mi devi obbedienza, donna. Non scordartelo mai.»

«Come posso scordarlo? Non c’è stato un giorno negli ultimi otto secoli nel quale tu non me l’abbia ricordato.» La calma, così come il buon senso, era scivolata via. Non si preoccupava più che qualcuno potesse udirla parlare da sola, d’altronde quello era il tempo dei pazzi, dove gli uomini comunicavano grazie a minuscoli apparecchi, e la musica usciva da fili magici. Non l’avrebbero certo rinchiusa per così poco.

«Non pregusti il momento in cui potrai toccarmi ancora?»

Una mano invisibile premette sul suo collo, una stretta troppo leggera per farle del male, ma abbastanza forte per scrollarla dal torpore; quelle dita scivolarono piano lungo la sua gola e poi scesero all’altezza del petto, lambendo dolcemente le forme del corpo sopra gli strati di abiti.

«Non credere che manchi poco», sibilò lei con un sospiro strozzato.

Il tocco scomparve e la voce si fece di nuovo sottile. «Questa è diversa, è l’ultima, lo sento.»

«Non mi piace questa ragazza, ti ha visto.»

«Esattamente. È riuscita a vedermi, siamo connessi. Sai cosa significa?»

«Sei folle», rispose sprezzante, inarcando le labbra in un gesto disgustato.

«Mi hai reso tu folle. È colpa tua, tienilo a mente.»

«Dimmi, dunque», proseguì la donna fermandosi sul posto, «cosa credi di ottenere se lei è veramente quella giusta? Non puoi tornare indietro nel tempo.»

«Cara Sofia, lo sai benissimo ciò che voglio.» Il tono divenne caldo, come un alito sussurrato in un orecchio: «Vendetta.»

 

 

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© 2013 Lorena Laurenti

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