Dedicato a chi ha sempre
avuto fiducia in me, anche
quando io non ne avevo.

 

SARANNO IN CINQUE

MA IL QUINTO NON ARRIVERÀ MAI.

NELLA MEMORIA RICORDI DI SANGUE.

SOLO CON LA MORTE

AVVERRÀ LA RINASCITA.

 

Malinconia. Era quella l’unica sensazione che percepivo in quel mondo senza forma. Poi venne il tatto. Un corpo adagiato su un letto morbido, ma al tempo stesso ruvido. Le mani e le braccia che sprofondavano leggermente, la testa abbandonata di lato. Dove sono?, pensai.

Il calore arrivò per ultimo, rovente e torrido. Era ovunque, sulla pelle, sul viso, nell’aria, persino sotto di me. Mi sforzai di aprire gli occhi, di muovere le dita. Il mio corpo non voleva collaborare, era paralizzato al suolo.

Attraverso le ciglia filtrarono i primi raggi di luce accecante. La malinconia divenne rabbia. Mi sentivo come una di quelle mattine, quando non riconoscevo la camera in cui mi svegliavo: all’alba fissavo il soffitto, i mobili, le tende, ci mettevo sempre diversi minuti per capire dove fossi, per ricordare cosa ci facessi in quel luogo.

Giallo e azzurro. Attorno a me non c’era altro. Sbattei più volte le palpebre, non tanto per mettere a fuoco, piuttosto per credere a quello spettacolo. Ero in mezzo a un deserto.

Feci leva sulle braccia, ignorando i muscoli che urlavano di dolore. Sabbia ovunque. Che accidenti è successo? Sapevo chi ero, dove dovevo essere, tuttavia ignoravo completamente come fossi arrivata lì. Provai a concentrarmi, cercai di riportare alla mente l’ultimo ricordo. Mi risposero solo immagini confuse. Il mio appartamento, i libri in disordine sulla scrivania, l’afa che si alzava dall’asfalto umido, il parco dietro casa. No, non era tutto lì, era successo qualcos’altro. Una moto. Una voce. La voce. Era quella l’ultima cosa che ricordavo, la stessa voce dell’incubo che invocava il mio nome: Saira.

1

Saira – Terre dell’Ovest – Regioni desertiche del Kraan

Mi trovavo completamente sola in una vasta pianura. Il cielo era nero, carico di nubi minacciose, l’aria densa, e una voce femminile ripeteva con ostinazione il mio nome. Girandomi di scatto, soltanto per una piccolissima frazione di secondo, la vidi: una ragazza, in piedi di fronte a me. L’abito bianco le fasciava il corpo esile e pallido, i capelli castani si muovevano in balìa delle raffiche di vento. Il suo aspetto era familiare nonostante non la riconoscessi.

L’immagine non durò a lungo. Un istante soltanto, per ripresentarsi subito dopo in modo totalmente diverso: la sua pelle ricoperta di sangue, il vestito macchiato e gli occhi pieni di lacrime. Non potevo guardarla, il terrore e il senso di colpa non mi permettevano quasi di respirare. Forse per quel motivo la mia attenzione passò alla spada che teneva in mano. La sua lunga lama luccicava nell’oscurità. Sull’impugnatura era incastonata una gemma rotonda dalle sfaccettature blu e oro. Rimasi incantata da quella luce che, pian piano, mi avvolse completamente.

Quell’incubo mi aveva svegliato di soprassalto, vivido e tangibile come un fatto realmente accaduto. Attorno a me, adesso, c’era soltanto una distesa di sabbia. Com’è possibile?

Scrollai la testa per liberarmi dai granelli rimasti incollati, ringraziando ancora una volta di avere i capelli così corti, poi mi alzai adagio. Mi sentivo debole e quella temperatura di certo non aiutava. Con la mia carnagione, se non avessi trovato subito riparo, sarei finita ustionata.

Ma cosa diavolo sto pensando di fare? Ruotai lentamente. Non c’era via di fuga, non c’era nessuno. Controllai le tasche alla disperata ricerca del cellulare. Niente. Quel mattino dovevo averlo dimenticato a casa. Le lacrime pungevano dietro le palpebre, però io non volevo piangere. Avevo smesso molto tempo prima.

«Mi daresti un passaggio?»

Un’immagine apparve improvvisa: stavo parlando a qualcuno. Ma dove? Chi era? Strinsi le mani sulle tempie, sforzandomi di ricordare. C’era un ragazzo, forse aveva diciannove o vent’anni al massimo, poco più grande di me. Lo avevo trovato carino, anche se di solito non mi soffermavo su certi dettagli. Faceva caldo, si riusciva a respirare unicamente all’ombra delle querce del parco. Lentamente le scene si fusero l’una sull’altra creando una trama. Ricordavo.

«Sono caduta dalla moto», scandii. Era così. Avevo chiesto un passaggio a quel giovane, proprio vicino ai giardini dove marinavo sempre la scuola. Non mi sentivo bene, quell’incubo mi assillava e, pur di dimenticarlo, avevo bevuto alcolici, quel tanto da intorpidire la mente. Dopo essere salita sulla moto, tutto era diventato confuso. Pensieri sfocati. All’improvviso una donna era apparsa in mezzo alla strada, la stessa del sogno, e anche in quel momento chiamava il mio nome. Ricordavo la caduta all’indietro, il casco che volava via dalla testa e il bianco sfavillante che avvolgeva ogni cosa.

«Sono morta», dissi ad alta voce, per convincermi dell’evidente realtà. Buffo a dirsi, ero convinta che la morte sarebbe stata una liberazione, invece mi sentivo peggio del solito. Sentii le labbra incresparsi in un sorriso mentre quel pensiero bizzarro si concretizzava: Sono stata cattiva e ora sono all’inferno.

Doveva essere per forza così, razionalmente non c’erano altre spiegazioni. Se fossi stata reduce da un incidente stradale, al mio risveglio avrei dovuto trovare la strada, tanto per cominciare, i resti della moto e probabilmente i soccorsi. No. Io ero morta sul colpo, senza soffrire troppo. Da lì in poi avrei dovuto fare i conti con Lucifero o qualsiasi altra creatura demoniaca esistesse in quel luogo.

Scoppiai in una risata isterica. Di certo non sarebbe stato peggio di una conversazione con Françoise.

Camminavo senza nessuna concezione del tempo e dello spazio. Ogni metro si ripeteva uguale. Le sferzate di vento rovente mi avevano seccato le labbra, e piccoli tagli dolorosi si stavano già aprendo. Avvertii il sapore del sangue sulla lingua e non potei fare a meno di pensare che quella fosse la giusta conclusione a una vita d’inferno. Finalmente ci sarebbe stato solo silenzio. Sarebbe sparita mia madre, mio padre avrebbe smesso di tormentarmi e non sarei più stata obbligata a vedere nessuno. Niente domande sulla mia vita privata, sul perché non avessi ancora un ragazzo o irritanti commenti sul mio aspetto. Mi sarebbe mancato unicamente Satoshi; amavo il mio fratellastro più di chiunque altro.

Mi fermai un secondo, cercando di riprendere fiato. Il caldo mi stava dando alla testa, se fosse continuato così sarei del tutto impazzita. Con un ultimo gesto di rabbia urlai al vento, ma non giunse nessuna risposta.

Mentre il calore e la stanchezza mi costringevano a distendermi, mi balzò in testa un’idea talmente assurda da apparire fattibile: potevo trovarmi in una sorta di reality. Sarebbe stato degno di Françoise, l’occasione ideale per dare una lezione alla figlia degenere. Uno spettacolo ben architettato per arricchirsi alle mie spalle, d’altronde una come lei avrebbe trovato facilmente gli agganci giusti nel mondo dello spettacolo.

Chiusi gli occhi, del tutto esausta. Le ultime energie scivolarono via con una sensazione di nausea. Prima di perdere i sensi, udii dei passi trascinarsi verso di me.

L’odore di bruciato mi riempì le narici. Il calore era scomparso e sentivo la brezza accarezzarmi il viso. Sono svenuta di nuovo? Stupida ragazzina debole, mi denigrai. Il mio corpo non rispondeva e bastò poco per capire che qualcuno mi aveva legato. Sentivo le braccia tirate dietro la schiena e i polsi schiacciati tra di loro. Terra e sassi grattavano contro la pelle nuda delle gambe, mentre qualcosa di ruvido serrava con forza le caviglie. Il panico salì dallo stomaco, attanagliandomi la gola. Avevo visto troppi film dell’orrore, troppe vittime innocenti rapite e torturate per restare calma in una situazione simile.

Intanto che la mia mente combatteva con demoni malvagi e serial killer pronti a seviziarmi, una voce maschile si rivolse a me: «Ti sei svegliata.»

Dovevo aprire gli occhi a tutti i costi. Dapprima arrivarono soltanto immagini indefinite. Notai un falò ardere a distanza di qualche metro e, tutto attorno, il buio ingoiare ogni cosa. La sagoma venne verso di me con lentezza. «C… chi sei?», rantolai.

«Perché non hai il simbolo sulla fronte?», mi chiese, severa e pacata.

«Simbolo?», ripetei, cercando di mettere a fuoco. Sembrava un ragazzo. Usava un tono neutro, asettico.

Si tolse il cappuccio dal viso e si inginocchiò alla mia altezza. Aveva i capelli rossicci, mossi e spettinati; una leggera barba incolta lo faceva apparire più vecchio della sua età ma, a occhio e croce, doveva avere al massimo due o tre anni più di me. Furono i suoi occhi a colpirmi, verdi e incredibilmente vuoti, come se la sua testa fosse anni luce da lì.

Si avvicinò ancora, le sue labbra a un palmo dalle mie, la mano che scostava la frangetta dalla fronte. «Perché non hai il simbolo?», ribadì.

«Di che simbolo stai parlando? Io non capisco.» Sfregai le braccia, nervosa. «Dove siamo? È l’inferno questo? Dimmi la verità, sono morta? Il simbolo è forse una cosa che dovevano mettermi all’ingresso dell’Ade? Non mi hanno messo niente!», gli ringhiai contro, in un moto di disperazione.

Fu allora che lo vidi per la prima volta, seguendo lo sguardo di lui. Mi chiedevo perché non lo avessi notato nel deserto: un ciondolo mi pendeva dal collo, ricadendo dentro la canotta che indossavo. Lo strano giovane fu più sorpreso di me. Afferrò la collana tirandola con forza, con la chiara intenzione di strapparmela di dosso. «Sei pazzo? La mia testa è attaccata, lo sai?»

Senza badare alle mie lamentele, strattonò la catenella verso di lui ed esaminò con cura il pendente. Si rialzò e, pensieroso, tornò a sedersi vicino al fuoco. «Sei su Ebdor, nelle Terre dell’Ovest. Dovresti avere il simbolo.»

«Ebdor?» Più che stupita ero incredula. Un migliaio di pensieri mi attraversò la mente. No, non potevo crederci. Il sogno, la moto, il deserto e ora anche quella collana misteriosa. Rifiutavo persino l’idea. «Non dire una parola di più. Non ti credo.» Adoravo la fantascienza e i romanzi fantasy, vivevo di serie televisive e film, ma da lì a reputare di essere su un altro mondo o in una qualche dimensione parallela, ne passava molto. Tutto aveva un limite. Non sapevo se essere furibonda, terrorizzata o divertita. Stavo assistendo a una scena paradossale e quel tipo, invece di slegarmi, sembrava quasi ridersela sotto i baffi. Ero irritata, ecco cos’ero. Quel ragazzo mi dava sui nervi. «Dimmi la verità, è tutto finto? Ci sono delle telecamere nascoste? Siamo forse in una specie di candid-camera ben organizzata?», chiesi, esasperata.

Corrugò le sopracciglia in un’espressione stupita e per poco non si mise a sghignazzare. «Tu, ragazzina, sei uscita di senno in quel deserto. Probabilmente sono arrivato troppo tardi.»

Ragazzina? Ma come si permette? Non gli avevo chiesto nulla. Se mi avesse lasciato lì, a quell’ora sarebbe stato tutto finito. «Come lo definiresti? Un salvataggio? In questo caso si può sapere perché accidenti sono legata?», latrai. «Se penso solo per un secondo che mi hai toccato con quelle mani… mi viene la nausea», proseguii in un sussurro.

«In effetti, a ben vedere, di ragazza hai veramente poco. Chissà, magari è proprio per quel corpo ambiguo e quegli abiti osceni che non mi fidavo nonostante tu non avessi il simbolo.»

Le guance mi diventarono bollenti, nessuno mi aveva mai insultato in quel modo. Non ero sicuramente sexy e affascinante come mia madre, non tutte si potevano permettere di fare la modella. Potevo anche acconsentire al fatto che ero piatta come una tavola e che con i jeans corti sembravo ridicola, ma la sua offesa andava molto oltre. Corpo ambiguo. Non ci potevo credere. Nemmeno Françoise, quando mi aveva dato della lesbica, era riuscita a farmi arrabbiare così tanto. Stavo per rispondere a tono quando lo vidi sguainare un lungo coltello. Le parole mi morirono in gola. Si avvicinò deciso e me lo puntò all’altezza del collo. Smisi di respirare.

«Vedi di avere un po’ di rispetto, ragazzina. Se non fosse per me, saresti morta in quel deserto.» Esitò un secondo, poi iniziò a tagliare le corde borbottando tra sé e sé: «Una come te non può di certo essere pericolosa.»

Era un estraneo, non sapevo nulla di lui, eppure lo odiavo. Mi massaggiai i polsi doloranti e provai ad alzarmi in piedi, riscaldando lentamente i muscoli intorpiditi. Eravamo in una radura rocciosa, probabilmente situata a ridosso del deserto. Il buio si estendeva tutto attorno a noi, non si notava nemmeno un bagliore in lontananza. Passare la notte accanto a quel fuoco era la mia unica opzione.

Il giovane mi passò una borraccia rudimentale e, soltanto allora, mi resi conto di quanta sete avessi. Per quanto ne sapevo, poteva essere veleno. Ma in fondo sono già morta, giusto? Sorrisi tristemente a quel pensiero e mi sedetti vicino al falò, di fronte a lui. Dopo l’ultima battuta era diventato silenzioso, gli occhi erano tornati vacui e spenti. In un certo senso ne fui grata: fare conversazione era il mio ultimo desiderio.

Scrutai i monti che si intravedevano all’orizzonte, verso quello che sembrava essere il nord. Erano rischiarati soltanto dalla luce delle stelle e delle lune. Lune. Mi pietrificai. Il cuore parve fermarsi in petto.

Due globi brillavano nella notte, il più vicino vagamente verdastro, il secondo con una nota rosa. Persi le forze. Non potevo crederci. Non volevo crederci. Forse era solo uno strano fenomeno astronomico, magari l’avevano anche annunciato al telegiornale, uno di quegli eventi che si presentavano una volta ogni duemila anni. Qualche stella che orbitava vicino alla Terra o qualcosa di simile. Doveva per forza essere così. Deglutii rumorosamente e mi riconcentrai sulle fiamme.

Quello strano individuo parve uscire dal suo mondo lontano, mi squadrò come se si fosse dimenticato della mia presenza, scosse la testa e, infine, iniziò a trafficare con gli spiedini che si stavano cucinando sulle braci. Dopo essersi accertato che fossero cotti, me ne porse uno.

«Che roba è?», chiesi davanti alla forma insolita del cibo infilzato.

«Pànaco del deserto. Fa schifo, ma se non vuoi morire, mangia. Non c’è altro.»

«Detta così fa proprio voglia di assaggiarlo.» Rinunciai a capire. L’aspetto bitorzoluto di quella cosa non prometteva niente di buono, ma lo stomaco ruggiva per la fame. Facendomi coraggio, addentai la carne. Era molliccia, senza sale e con un retrogusto acidulo. Al terzo morso mi assalì un senso di nausea. Se non altro aveva placato i brontolii.

«Non so perché tu sia qui», esordì all’improvviso, «ma bisogna stare attenti e non fidarsi di nessuno. Domani mattina ti accompagnerò al villaggio più vicino.»

«Villaggio?», reiterai esterrefatta. Nella sua espressione c’era compassione. Presi un respiro profondo e continuai: «Prima hai detto Ebdor. Cos’è?»

«Sbaglio o non volevi saperne niente? Sei già morta, non è così?»

«È una domanda o una conferma?»

«Una conferma: anche se non lo sei fisicamente, mentalmente lo sarai tra qualche giorno, non hai scampo.»

Devi fermarti, mi dissi, è un pazzo, inutile dargli corda. Eppure in qualche modo quella pazzia mi attirava. Ero curiosa, volevo vedere fino a dove si poteva spingere. «E tu cosa saresti?»

«Non ho il simbolo.»

«Cos’è questo simbolo, me lo vuoi spiegare?»

«È un triangolo, ti appare al centro della fronte quando inizi a ragionare come loro, e succederà, stanne certa.»

«Perché tu non ce l’hai?»

«Perché mi tengo alla larga dai loro villaggi, se non per brevi periodi.» Era sul punto di dire qualcos’altro, ma si trattenne.

«Quindi, ricapitolando», proferii sarcastica, «tra poco perderò le mie facoltà mentali e mi apparirà sulla fronte un raccapricciante simbolo come per magia. Tutto ciò perché domani mi accompagnerai in uno dei villaggi, giusto?»

«Puoi scegliere in realtà.»

«Posso scegliere di vagabondare nei deserti per avere più o meno l’uso del mio cervello, sopravvivendo mangiando questa schifezza? Grandioso direi!», sciorinai sventolando lo spiedino con un rimasuglio di cibo attaccato su.

«Libera di non credere a una parola, la vita è tua.»

Lo scrutai con attenzione. Era convinto di ciò che affermava, non mentiva. Nel suo cervello ogni parola era veritiera. Quella non era la morte, era un incubo. Un sogno incredibilmente realistico che aveva deciso di non darmi tregua. Presi una decisione e, in tono calmo e pacato, gliela riferii: «Domani mattina arriverò al primo centro abitato, troverò un telefono e chiamerò casa.» Sarebbe stato così. Mi sistemai a debita distanza da lui, tentando di trovare comodo il fastidioso terriccio sotto di me. Qualche minuto dopo, la stanchezza prese il sopravvento e mi addormentai.

Vidi nuovamente la ragazza dall’abito bianco. Stava correndo. Sapevo di sognare, ma allo stesso tempo era tangibile. Sentieri sconnessi ricoperti di aghi di pino. Immensi alberi che nascondevano il sole. Nell’aria odore di metallo. La vedevo dall’alto e, contemporaneamente, mi sentivo vicino a lei, mentre un’ansia sempre più forte mi aggrediva.

A un tratto si fermò, come se cercasse qualcuno. Il suo sguardo scivolò nella mia direzione. «Saira», pronunciò ad alta voce, fissandomi. Similmente al sogno precedente, tutto mutò. Il sangue le scese lento dal corpo ferito e macchiò l’abito. Potevo sentirne l’odore.

Mi svegliai boccheggiando. Ero sempre su quella radura; la canotta bianca sporca di terra, la schiena dolorante. Avrei dovuto svegliarmi nel mio comodo letto, abbracciata al piumino, invece mi trovavo ancora in quel posto maledetto.

Il sole stava sorgendo e lo strano ragazzo era scomparso. Le tracce erano svanite, addirittura le ceneri del fuoco erano state ben nascoste per celare il suo passaggio. Se non fosse stato per la borraccia piena d’acqua, che trovai al mio fianco, avrei potuto pensare che quell’incontro non fosse mai avvenuto. Una visione, come il deserto e tutto il resto. Non mi aveva nemmeno detto il suo nome.

Mi strinsi alle ginocchia e serrai gli occhi. Non poteva essere vero. Era irrazionale. Espirai lentamente, cercando di decifrare le emozioni tra cui altalenavo. Avevo paura, ed era più che comprensibile, in fondo non avevo compiuto nemmeno diciassette anni. Mi trovavo da sola su quello che pareva a tutti gli effetti un altro mondo. Altro mondo. Non ero in grado nemmeno di dirlo a voce alta. Non ci volevo credere.

Presi tra le mani il ciondolo che mi era apparso al collo, una semplice pietra dura, rotonda e trasparente. Un cristallo limpido con qualche riflesso azzurro.

«Basta», articolai. «Troviamo questo villaggio.» Continuare a rimuginare non serviva a nulla, dovevo muovermi. Se davvero poco più avanti c’era un centro abitato, avrei solo dovuto raggiungerlo.

 

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© 2012 Lorena Laurenti  © 2017 Lorena Laurenti

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